La cattedra è vuota
Simonetta Cesaro, facilitatore e consulente
Dopo diversi anni di esperienza maturata all’interno di importanti realtà internazionali, oggi Simonetta aiuta le aziende a rimanere competitive nel tempo, preparandole ad affrontare i cambiamenti in modo strutturato e fedele alla propria identità.
«Credo che la forza trainante venga dalle persone che compongono l’azienda, per questo nel corso del tempo mi sono specializzata nel design thinking, che consiste nell’organizzare brevi sessioni di co-creazione e risoluzione di nodi strategici nei team di lavoro. La concretezza e l’applicabilità, nel mio lavoro, sono dei valori irrinunciabili».
In un mondo in rapida evoluzione, anche la formazione in Italia sta attraversando una nuova fase di maturazione. Dai laboratori aziendali alle sale riunioni, il cambiamento ha trascinato sotto le luci della ribalta un nuovo protagonista: il facilitatore. Ma chi è, e perché le aziende ne hanno bisogno? Assieme a Simonetta Cesaro, facilitatrice e consulente, abbiamo cercato di comprendere la trasformazione che sta attraversando il mondo della formazione. E abbiamo scoperto che l'apprendimento può diventare un'esperienza coinvolgente, dove le idee nascono (e si condividono) mentre si impara facendo.
Di che cosa ti occupi, Simonetta?
Mi dedico a semplificare e a rendere tangibili concetti complessi o astratti per i gruppi di lavoro. Spesso, in ambito aziendale, ci troviamo di fronte a regole o formazioni che, pur essendo importanti, possono sembrare distanti dalla quotidianità. Questo può generare confusione quando si tratta di applicarle concretamente. Allo stesso modo, l'istruzione universitaria ci fornisce molta teoria, ma quando si tratta di applicarla nel lavoro può risultare difficile capire da dove iniziare. Il mio ruolo è quello di aiutare i team a identificare le priorità, comprendere ciò che è veramente importante e presentarlo in modo che sia facilmente comprensibile per tutti.
Che cosa significa “facilitare”?
La parola "facilitare" è spesso interpretata in modi diversi. Ognuno ha un po’ il suo, anche perché di recente è diventato un termine molto comune. Se consultiamo il dizionario Treccani, la definizione che ne viene data si riferisce alla “creazione di condizioni favorevoli”. Devo dire che mi ci ritrovo, perché cattura l'essenza di ciò che facciamo. Alcuni credono che la facilitazione significhi osservare e lasciare che le cose accadano all'interno di un gruppo, ma in realtà le cose sono un po’ più complesse di così. L'obiettivo principale è quello di creare un ambiente in cui le idee possano fluire liberamente e le persone possano collaborare in modo efficace.
Secondo te, perché le aziende dovrebbero avere bisogno di un supporto di questo tipo?
Non tutte le aziende sentono il bisogno della facilitazione. La scelta di adottare questo approccio dipende dall'evoluzione culturale dell'azienda e dalla direzione che si vuole dare al proprio sviluppo. Le aziende che hanno già intrapreso un cammino di evoluzione culturale e che comprendono l'importanza di coinvolgere i collaboratori nella strategia tendono ad apprezzare di più un percorso di facilitazione. Queste aziende vedono l'empowerment come un valore, un modo per rendere i collaboratori più autonomi e responsabilizzati.
Qual è il vantaggio principale offerto da questo genere di approccio?
Il vantaggio principale della facilitazione è che, attraverso sessioni di laboratorio, si impara facendo. Questo approccio può essere applicato in molti contesti, permettendo un trasferimento immediato di competenze e la trasformazione rapida delle idee in azioni concrete. Questo vale sia quando si parla di visione aziendale, sia quando si tratta di obiettivi più tangibili, ad esempio riguardanti processi o innovazioni.
Ma non si tratta solo di acquisire conoscenze: anche la condivisione delle idee è un fattore importante. Hai presente quella frase di G.B. Shaw che dice che se abbiamo una mela ciascuno e ce la scambiamo, alla fine avremo sempre una mela a testa; ma se invece di una mela abbiamo un'idea, alla fine entrambi avremo due idee. Il concetto di condivisione è il cuore pulsante dei lavori di gruppo e dei percorsi di facilitazione. Ma nei laboratori le idee non vengono solo discusse, vengono anche messe in pratica. Questo approccio mette la facilitazione in netto contrasto con le tradizionali sessioni formative frontali, dove il partecipante spesso è più passivo.
Quando affermi di mettere in pratica le idee, di che cosa parli?
Potresti farmi un esempio?
Quando ti parlo di mettere in pratica le idee faccio riferimento alla capacità di tradurre concetti astratti in azioni concrete. Un esempio molto bello è rappresentato dal lavoro sull'esperienza del cliente, o "customer experience". Attraverso i laboratori possiamo analizzare nel dettaglio l'interazione col cliente in ogni fase del suo percorso. Questo tipo di lavoro ci permette non solo di immaginare la sua esperienza di acquisto, ma anche di prototipare soluzioni e di testarle in tempo reale. In sostanza, si tratta di trasformare delle idee teoriche in azioni tangibili e misurabili.
Esiste un metodo preciso per fare facilitazione?
Il metodo è importante. Senza una preparazione adeguata, i laboratori potrebbero trasformarsi in semplici discussioni o sedute infruttuose. La chiave per evitarlo è la pianificazione: dietro ogni sessione di laboratorio c'è un intenso lavoro di preparazione e di studio. Questo anche perché il fattore umano è una variabile cruciale nei laboratori, visto che non possiamo prevedere le reazioni che avranno le persone, né le dinamiche interne alle aziende. Gestire le situazioni impreviste richiede un mix di competenze che va da quelle relazionali, necessarie a gestire le interazioni umane, a quelle più tecniche, come ad esempio il visual thinking. Un ruolo importante ce l’hanno anche l'esperienza e la competenza del facilitatore.
Hai parlato del fattore umano. Quanto è importante in un percorso di facilitazione?
La variabile umana è fondamentale nei laboratori di facilitazione. Quando si lavora con le persone non si può mai prevedere con certezza come reagiranno, soprattutto quando si toccano temi sensibili o delicati. Se stai toccando un tema sensibile non lo sai… fino a quando è troppo tardi! Questa imprevedibilità può portare il laboratorio a prendere direzioni inaspettate. Per questo è essenziale avere sempre un piano B: anche se hai una scaletta ideale da seguire, devi essere pronta a modificarla in base alle esigenze del momento.
Qual è l’obiettivo di questi laboratori?
L'obiettivo principale è quello di produrre un risultato tangibile al termine di ogni sessione. Questi percorsi generano un'energia enorme all'interno dei gruppi, portandoli a un livello di coinvolgimento molto alto. Se però questa energia non viene canalizzata in qualcosa di concreto, può rapidamente trasformarsi in frustrazione. Ecco perché è fondamentale che al termine del laboratorio i partecipanti abbiano in mano qualcosa di applicabile.
Quali sono i feedback più comuni che avete raccolto rispetto a questo genere di attività?
Uno dei riscontri più comuni è la sensazione di aver acquisito chiarezza e ordine. I partecipanti apprezzano la capacità dei laboratori di trasformare concetti complessi in idee chiare e ordinate. Capiscono il perché di determinate azioni, che senso hanno e qual è l'impatto che generano sull’ecosistema aziendale.
Un altro feedback significativo riguarda la sensazione di aver dedicato tempo a temi strategici che, sebbene riconosciuti come fondamentali, spesso vengono fagocitati dalla routine quotidiana. Temi come il CRM, che possono sembrare tanto grandi da diventare delle sorti di mostri sacri, appaiono più gestibili e chiari dopo poche ore di laboratorio.
Molti partecipanti hanno anche espresso un apprezzamento per l'approccio interattivo. I laboratori non sono semplici e richiedono una partecipazione attiva e un impegno profondo. L’energia che si crea però aiuta a sentire meno la fatica, senza contare poi che le competenze acquisite attraverso la pratica diretta sono spesso un premio più che adeguato.
Un altro aspetto positivo è la sensazione di essere ascoltati. In questi laboratori ogni voce conta e ogni partecipante ha l'opportunità di esprimere il proprio punto di vista. Questo crea un ambiente in cui le idee possono fluire liberamente e dove la gerarchia aziendale viene temporaneamente messa da parte in favore della collaborazione.
Infine, alcuni manager inizialmente scettici riguardo all'efficacia di questo approccio sono stati piacevolmente sorpresi dai risultati. Hanno riconosciuto il valore di sedersi con i propri collaboratori, ascoltando e apprendendo da loro.
Come sta cambiando il mercato della formazione negli ultimi anni?
Io non sono un formatore, però ho notato che il panorama della formazione sta cambiando. In Italia veniamo da una cultura che ha sempre prediletto un approccio frontale, partendo dalle elementari per arrivare alle università. Questa metodologia ha influenzato molto i nostri manager. Nonostante questo, mi sembra di riconoscere una crescente tendenza verso metodi più interattivi e partecipativi. Le persone oggi desiderano essere più coinvolte e sentono il bisogno di condividere il loro valore con gli altri. Si parla sempre più spesso dell'importanza di trovare uno scopo nel lavoro, e tutto questo credo vada in questa direzione. Ovviamente la formazione frontale è ancora utile per molte aziende, ma penso che una combinazione di approcci frontali e interattivi possa offrire il massimo beneficio per la crescita culturale della maggior parte dei contesti sociali e aziendali.