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  4. Il metodo dietro alle idee

Per gli amanti (e non) della cucina, Alessandro Gilmozzi non ha bisogno di molte presentazioni.

Chef stellato dal 2008, col suo ristorante “El Molin” a Cavalese, val di Fiemme, ha portato la cucina alpina ad un nuovo livello di innovazione.

In questa intervista, però, non abbiamo incontrato solo lo chef: come tante altre star della cucina, Alessandro Gilmozzi è anche un imprenditore impegnato.

Ecco perché abbiamo colto l’occasione per parlare di idee, di metodo e di gestione del personale

 

 

Partiamo dal principio. Come hai iniziato a cucinare?

Sono nato in una famiglia che si occupa di ospitalità da 70 anni. Quando ero piccolo aiutare in casa non era un’opzione, lo dovevi fare e basta. È così che ho imparato a muovermi in cucina, anche se all'inizio il mio sogno era quello di fare lo scultore.

 

Perché un ragazzo che voleva fare lo scultore diventa chef?

Da ragazzo mi piaceva viaggiare e viaggiando mi ritrovavo sempre in cucina. Dovevo mantenermi e quello era il lavoro che sapevo fare. Una volta tornato a casa le cose non cambiarono di molto, perché dovevo aiutare i miei genitori. Ho finito per appassionarmi a questo lavoro perché ho incontrato le persone giuste. Loro mi hanno dato l'input per esplorare nuove strade, lasciando quella dell'hôtellerie per il fine dining.

 

Quando hai aperto il tuo primo ristorante?

Nel '90 mio papà era stufo di vedermi girare. Ero curioso e viaggiavo spesso per formarmi. Durante quei primi anni ho conosciuto Ducasse, Michel Bras, Ferran Adrià, Marc Lera.... Ho fatto tanto e visto tanto. A quel punto mio padre ha comprato una parte del vecchio mulino dietro all’hotel di famiglia e ci ha ricavato un ristorante. Mi ha detto: “Qui c'è il ristorante e qui c'è il mutuo… ora basta viaggiare, vai avanti tu”'. Così è partita la mia avventura. Nel '90 ho aperto, ma non ho smesso di formarmi. Sono partito con una cucina trentina, classica, comprensibile a tutti. Un passo alla volta sono arrivato alla cucina di ricerca che porto avanti ormai da 15 anni.

 

C’è stato un momento in cui hai capito che questo era il mestiere giusto per te?

Ti ho detto che volevo fare lo scultore. Sono successe alcune cose, però, che mi hanno fatto cambiare idea. Tra queste c’è un aneddoto legato al mio periodo da militare. Pur non volendo, ancora una volta ero finito in cucina. Lì ho dovuto organizzare un banchetto per duemila persone, alla presenza del Generale e del Ministro del tempo. Considera che era l’85 e avevo poco più di diciotto anni. Al banchetto andò tutto bene e capii che forse quello poteva essere il lavoro giusto per me.

 

Qualche tempo fa ho letto un articolo in cui raccontavi la scoperta di un’antica ricetta per il pan di spagna. Qual è il tuo legame con la tradizione?

Sono nato in un locale storico di palazzo Riccabona, a Cavalese. Le ricette di cui parli, alcune risalenti al 1700, le ho trovate qui. C'è stato un periodo in cui sbirciavo questi vecchi messali per capire se la tradizione poteva diventare innovazione, e così è stato. In fondo, si tratta di guardare a quello che facevano i nostri avi per portarlo ai tempi nostri. Oggi abbiamo un laboratorio di ricerca e sviluppo, facciamo circa 70 piatti nuovi ogni anno, ma è da lì che parte tutto. Da quello e dalla materia prima: come ristorante abbiamo una rete di contadini capace di fornirci tutto quello di cui abbiamo bisogno. Negli anni ‘90 era più difficile, perché stava esplodendo la grande distribuzione horeca e le cucine erano piene di prodotti eccellenti provenienti da tutta Europa. Presi dall’entusiasmo, tanti miei colleghi non si accorgevano che le stesse cose le avevano già dietro casa.

 

Mi puoi raccontare qualcosa di più su questa “rete”? 

Oggi ci appoggiamo a una decina tra contadini, macellai e casari che si preoccupano di produrre quello che ci serve. Tutto questo ci ha permesso di ottenere la stella Michelin nel 2007 per il 2008 e, l'anno scorso, la stella verde per la sostenibilità. Questo riconoscimento però non riguarda solo gli ingredienti e il loro metodo di approvvigionamento, ma anche l’impegno che c’è dietro allo studio delle ricette. Un piatto, per potersi dire sostenibile, deve esserlo anche per chi lo fa. Un esempio? Con il pastificio Felicetti, di cui sono Chef Ambassador, abbiamo messo a punto un protocollo di lavoro che ci permette di cucinare la pasta in un minuto e trenta. Questo significa ridurre la forza lavoro e consumare meno. Senza contare che siamo tra i pochissimi ristoranti che, seppure inseriti all’interno di un territorio ad alta vocazione turistica, concediamo due giorni di riposo a settimana a tutto il personale. La sostenibilità è anche questo.

 

Parliamo di innovazione. Esiste un metodo per guidare le idee, oppure tutto dipende dall’ispirazione dello chef?

Fino al 2006, prima di prendere la stella, avevo un rapporto con il personale molto familiare. Non che ora non ce l'abbia, anzi. A quel tempo, però, ero più giovane, affrontavo le cose con più leggerezza e la sera capitava di uscire assieme. Poi mi sono accorto che senza un certo tipo di ordine la crescita che desideravo non sarebbe arrivata. È lì che ho fatto il mio primo protocollo. Mi sono chiesto: cosa vuole il mio cliente da me? Cosa voglio che succeda da quando entra a quando esce dal ristorante? A partire da queste domande ho costruito il mio metodo. L'ho fatto anche coi ragazzi. Ogni mansione ha le sue procedure, scandite minuto per minuto da quando lo chef entra in cucina a quando esce. Grazie alla collaborazione con un gastroenterologo siamo addirittura riusciti a fare un protocollo di lavoro sulla cadenza delle portate. Abbiamo visto che se riusciamo a tenere un ritmo di 7 minuti a portata, il nostro ospite godrà di una digestione ottimale e vivrà un’esperienza eccellente anche sotto il profilo del benessere.

L’ispirazione è fondamentale, ma il metodo è importante.

 

Mi hai parlato di personale. Quanto è importante lo staff per un ristorante come El Molin?

Penso sia la cosa più importante. Chi viene da me viene per imparare qualcosa, per conoscere la cucina dolomitica, la botanica e tutti quei saperi antichi che ho accumulato negli anni. Quand’è così non sei più solo uno chef, ma diventi in parte anche un mentore, una guida. Le persone ti cercano perché vogliono uno stimolo importante ed è naturale che in quel momento sei per loro un punto di riferimento. Ascoltarli è fondamentale, perché questo è un settore è impegnativo. Internamente abbiamo un progetto con un coach per supportare chi ne ha bisogno, e a volte è servito anche per capire se alcune crisi nascevano da un periodo di stanchezza o se forse avevano imboccato una strada che non desideravano davvero. Questo mi ha dato tanta soddisfazione, anche perché farlo non ha aiutato solo loro: trovare delle persone che abbiano la voglia di sposare la tua filosofia di lavoro, a questi livelli, è indispensabile. Ti faccio un esempio. Quest'anno avevamo il sommelier che, per colpa di un incidente, è stato assente per un lungo periodo. L’hanno sostituito due ragazze che hanno avuto il coraggio e l’entusiasmo di mettersi in gioco. Io sono molto gerarchico e nel mio ristorante c’è tanta disciplina, ma voglio che sia anche un luogo di lavoro armonioso, non invasivo. Voglio che le mie persone si sentano parte di una famiglia, perché quando c’è uno spirito di squadra collaborare è più semplice e i grandi risultati sono più vicini.

 

Tu, come altri chef di rilievo, sei anche un imprenditore. Cosa collega la cucina al mondo dell'imprenditoria?

Il nostro è un business esperienziale. Quando hai bisogno di tante persone per far vivere un'esperienza, il prezzo cambia. Cambia perché in quel numero ci sono dentro le materie prime, lo studio del piatto e, appunto, le persone. Ad un certo punto ho dovuto scegliere se continuare a lavorare a carta o se definire un'esperienza e imporre un prezzo di marketing, perché un ristorante deve essere sostenibile anche nel cassetto. Questo per gli stellati è un aspetto un po' delicato, perché a meno che tu non abbia un bacino d'utenza importante il margine di guadagno non è molto alto. Il nostro è un po’ un romanticismo, se vuoi, e sopravvive spesso grazie ad attività parallele. Nel mio caso si tratta degli altri locali, il bistrot e la pizzeria Excelsior, e delle mie consulenze. Di queste ne ho fatte e ne faccio tante. Una delle ultime mi vede impegnato a Treviso per l’apertura di Tiramisù Treviso, una palazzina dedicata al famoso dolce. Insomma, tutto è collegato al ristorante, perché il ristorante è la tua vetrina più importante, ma poi il business lo fai soprattutto fuori.

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