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  4. I valori al centro, , colorare una maglia per indossarne i valori

 

Marco Fontanesi è CEO e co-fondatore di Lifecircus.
Specialista in comunicazione e strategia di brand internazionali, da sempre affianca alla consulenza la sua passione per il mondo dello sport, dove da diversi anni supporta importanti atleti nel loro management.
Ad oggi rappresenta alcune stelle del biathlon mondiale, tra le quali: Dorothea Wierer, Lisa Vittozzi, Tommaso Giacomel e Hannah Auchentaller.

 

 

Quando i brand parlano, di cosa parlano?

Può sembrare una domanda banale, ma la risposta non è scontata. Ciò di cui parlano i brand cambia col passare del tempo e segue l’evoluzione del mercato.
Oggi, ad esempio, la comunicazione dei brand è spesso incentrata sulla costellazione dei valori aziendali.
In questo lo sport può aiutare molto: ecco perché ne abbiamo parlato con Marco Fontanesi, esperto di comunicazione e marketing con oltre 30 anni di esperienza.

 

La comunicazione di brand è sempre una comunicazione di valori?

In buona parte. Se oggi un brand parla, quasi sempre è per comunicare il proprio impianto valoriale. Valori da legare all’azienda, ai suoi prodotti, servizi, alla sua mission o alla sua purpose.Oggi si parla tanto di B2H, di Business to Human, perché alla fine è alle persone che i marchi si rivolgono. Maggiore è la coerenza che c'è fra la comunicazione dei valori di un brand e le persone alle quali si rivolge, maggiore è anche l'equity del marchio.

 

Se pensiamo al tema dei valori, non possiamo non pensare al mondo dello sport.
Un mondo dove i brand sono molto presenti…

Il mondo dello sport è una fonte preziosa quando parliamo di valori. Una fonte alla quale i brand accedono tramite le sponsorizzazioni, perché attraverso la sponsorizzazione si appropriano di ciò che un atleta o uno sport rappresentano.Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare negli anni della maggior crescita mediatica  dello sport. Ti parlo degli anni che vanno dal ‘85 e al ’95. In quel periodo lavoravo per IMG, una multinazionale americana fondata da Mark McCormack, l’avvocato di Harvard che fece delle sponsorizzazioni sportive quello che sono ancora oggi. Lui fu il primo, all'inizio degli anni 70, a individuare il potenziale di questo mondo. Ma IMG non fu solo la prima a riconoscere la dinamica che lega brand, sport e valori: fu anche la prima a pensare al corporate entertainment, cioè a tutte quelle attività con cui le aziende intrattengono i propri ospiti durante un evento. Wimbledon ed i paddock di F1 ne sono la testimonianza più eclatante.

 

Torniamo alla tua esperienza nel mondo dello sport…

Giusto per darti due coordinate, furono gli anni in cui nacque la leggenda di Alberto Tomba e dove i diritti commerciali e televisivi diventarono molto importanti da un punto di vista di revenue. Con Alberto Tomba ho lavorato per diversi anni, ma non era il solo. Nel mondo del tennis, IMG rappresentava campioni del calibro di Andre Agassi, Gabriella Sabatini, Martina Navratilova, Pete Sampras, Monica Seles e molti altri. Nel golf contava delle star del livello di Arnold Palmer, Greg Norman, Jack Nicklaus, Sandy Lyle, Ian Woosnam fino ad arrivare, più recentemente, a Tiger Woods. Quasi sempre, comunque, sport individuali e raramente di squadra. 

È una scelta che IMG fece a suo tempo e che l'ha portata ai risultati di oggi. Ricordiamoci che entrambi i finalisti del Torneo di Wimbledon 2023, Djokovic e Alcaraz, sono rappresentati da IMG.

 

Evitare le squadre è stata una scelta di marketing?

McCormack era un avvocato quotato e un importante professore all’Università di Yale e di Harvard. La scelta di gestire l’immagine dei singoli atleti credo fosse legata al desiderio di correre meno rischi rispetto a quelli legati all’imprevedibilità di alcune tifoserie. In ogni caso è stata la scelta migliore, perché ancora oggi IMG rimane un benchmark nella gestione delle celebrity sportive.

 

Quindi, che si tratti di un singolo sportivo o di un team il risultato non cambia?

Dipende dagli obiettivi che l’azienda si pone, ma la dinamica legata alla trasmissione dei valori non cambia. Lo sport ha sempre un ruolo formativo, educativo ed aspirazionale molto forte, e questo vale sia per gli sport di squadra che per gli sport individuali. Il sacrificio, l'accettazione delle sfide e delle differenze e l’ambizione di migliorare costantemente se stessi sono solo alcuni dei valori che hanno ispirato de Coubertin nella creazione dei Giochi Olimpici dell’era moderna. Alcuni sport li rappresentano più di altri, ma la comunicazione legata agli atleti e agli eventi sportivi ha sempre questo background di fondo. Parliamo dei valori con i quali gli uomini si confrontano quotidianamente, sia nella vita professionale che in quella personale. Pensiamo anche solo alla volontà di mettersi in gioco, superando i propri limiti: questo è un diktat che contraddistingue tutti gli sportivi. Hanno alti e bassi, ma i valori che li spingono sono forti. Non è un caso se personaggi del calibro di Niki Lauda  o di Jean-Claude Killy siano riusciti a portare questi valori fuori dalla propria carriera sportiva.

 

Esistono degli accostamenti tra brand e sport che possono rivelarsi controproducenti?

Salvo casi eccezionali, l'associazione fra brand e sport è sempre vincente. Pensiamo al caso Red Bull. Inizialmente avevano sposato gli sport estremi sulla falsariga di quello che aveva già fatto Sector-no Limits, per costruirsi un posizionamento legato al concetto del superamento dei propri limiti. Da qui nasce il loro payoff : “Red Bull ti mette le ali”. Se oggi sono arrivati dove sono, è perché sono riusciti ad associare determinati valori al loro prodotto. Dopo aver costruito un allure molto forte attorno a questo concetto, hanno potuto estendere un approccio circoscritto agli sport estremi per aprirsi allo sport in generale. Oggi Red Bull sponsorizza squadre di hockey, squadre di calcio, team di Formula 1, squadre di vela e molto altro, utilizzando ognuna di loro per comunicare in modo verticale ad un target specifico.Per le aziende legate al settore sportivo, come Nike, questa sfida risulta un po’ più semplice. Per una realtà extra settore come Red Bull, invece, riuscire a posizionarsi in maniera forte nello sport richiede enormi investimenti e una grande visione imprenditoriale.

 

Immaginiamo per un attimo di avere un brand da promuovere. Come scelgo lo sport, la squadra o l’atleta da sponsorizzare?

È importante capire le finalità dell’investimento. Facciamo un esempio di casa nostra, dove la FC Südtirol è salita dalla D alla serie B. L’Alto Adige ha deciso di sponsorizzarla per una questione non solo istituzionale, ma anche perché la squadra si muove e gioca in tutta Italia, portando il brand della provincia negli stadi e nelle televisioni di tanti tifosi.

 

Parliamo di doping. Se quello tra brand e sport è un legame fondato su determinati valori, cosa succede quando questi valori vengono traditi?

Il caso più eclatante è forse quello di Lance Armstrong. Dopo aver vinto 7 Tour de France consecutivi e aver sostenuto una posizione contraria all’utilizzo del doping per tutta la sua carriera, si è scoperto che era tra i primi a farne uso. La notizia ha creato talmente tanto scalpore che, dalla sera alla mattina, tutti i suoi sponsor l’hanno abbandonato. Esistono delle clausole nei contratti di sponsorizzazione che prevedono, nel qual caso un atleta si macchi di doping, la libertà per le aziende di rescindere dal contratto. 

 

Di che tipo di danni stiamo parlando?

Pensiamo al caso Schwazer. Poco prima di ammettere l’utilizzo di una sostanza dopante Alex aveva vinto la medaglia d'oro ai Giochi Olimpici. Quando si venne a sapere del suo ricorso al doping, la notizia fece scalpore. È ovvio che la caduta è proporzionale al livello di visibilità dell'atleta. Se uno sconosciuto fa uso di doping, nessuno se ne accorge e nemmeno se ne preoccupa.In ogni caso i danni sono più per l’atleta che per il brand. Non penso che le aziende abbiano mai risentito dal punto di vista dell'immagine o dell'equity per la caduta di uno sportivo. Non va certo a loro beneficio, questo è chiaro. La cosa peggiore che possa capitare, però, penso sia la perdita di un asset comunicativo, perché sponsorizzare un campione è sempre un vantaggio in termini di promozione e porta con sé investimenti importanti.

 

Si avvicinano le Olimpiadi 2026, quindi ti chiedo: i Giochi Olimpici possono essere per i territori quello che il singolo sportivo è per le aziende?

I Giochi Olimpici riuniscono tutte le discipline di tutti gli sport invernali: capisci bene che è molto di più rispetto a quello che può fare o rappresentare un singolo atleta o una squadra. Certo, quando un atleta vince una medaglia è di lui che si parla, ma è anche vero che prima, durante e dopo i Giochi si parlerà di quell’edizione sempre in riferimento al territorio che li ha ospitati. Pensiamo poi a tutte quelle opere che vengono costruite per l’evento e che rimangono sul territorio, la famosa legacy legata ai Giochi: questo è un valore che va ben oltre lo sport. Quando i Giochi passano per un territorio è un'occasione unica per la comunità che lo abita. Il problema è che spesso non si riesce a comunicare alla popolazione questi valori, ed è qui che entrano in gioco altri fattori. L’impegno da parte delle Istituzioni di fare cultura attorno all’evento, dalle scuole d'infanzia fino alle università, spesso è debole e poco incisivo. La creazione della consapevolezza e dello spirito olimpico nascono troppo tardi e si perdono delle occasioni interessanti per promuovere i valori che lo caratterizzano.

 

A che punto siamo rispetto alla preparazione dei giochi del 2026?

La Fondazione Milano Cortina ha vissuto una serie di vicissitudini che ne hanno rallentato molti aspetti. Ora si stanno muovendo con celerità, ma personalmente credo ci sia ancora spazio per accelerare il tutto. Se si osservano i singoli territori, si trovano delle diversità abbastanza importanti. Livigno ad esempio sì è già mossa con largo anticipo, il Trentino ha fatto qualcosa mentre l’Alto Adige è ancora in fase di valutazione sul da farsi. La situazione cambia se guardiamo alla realizzazione delle strutture e delle infrastrutture necessarie, dove molti lavori sono già in corso d’opera. In generale, però, si sta muovendo tutto un po’ troppo a rallentatore, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione.

 

Pensi si possa mancare l'occasione di crescita offerta dai Giochi Olimpici?

Assolutamente. È facile mancarla soprattutto rispetto alle occasioni che i Giochi offrono prima della manifestazione. La manchi se non diffondi i loro valori, se non coinvolgi la popolazione, le scuole e i ragazzi. È difficile sbagliare durante le competizioni, quando hai una copertura mediatica mondiale, ma è più facile farlo prima, quando dovresti promuovere e seminare i valori che i Giochi rappresentano. Questo è un po' il rischio che si corre anche per il 2026.

 

È un problema comune?

Sì e no. I francesi, ad esempio, sono molto attenti a questo aspetto. Durante i Giochi di Albertville del 1992 colsero a pieno il loro potenziale; per Parigi 2024 si vedrà, visto che attualmente hanno altri problemi. Penso però anche ai Giochi di Lillehammer in Norvegia, nel ‘94, o a quelli di Barcellona nel ‘92, dove si respirava un'energia davvero speciale. La Spagna si stava liberando dai lasciti del lungo regime franchista e i Giochi furono un simbolo di libertà e di svolta. Spesso i Giochi possono diventare il giusto pretesto per parlare di temi di cui non si parla mai.

 

Se potesse esprimere un desiderio per i Giochi di Milano-Cortina 26, quale sarebbe?

Che si possano mettere in campo velocemente tutte quelle attività di cui un evento come questo ha bisogno per esprimere il suo potenziale. Il desiderio è che le Istituzioni si attivino affinché le scuole, il mondo imprenditoriale e il territorio nel suo insieme possano percepire il valore di questo evento, predisponendosi per raccogliere il massimo beneficio possibile da questa occasione. Non solo in termini di indotto, ma anche da un punto di vista sociale e culturale.
Se dovessi esprimere un desiderio, sarebbe questo.

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