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Intervista a Robert Zampieri

Come si gestisce il passaggio da un'azienda all'altra? Come si affronta una nuova avventura, e come si costruisce una squadra vincente?
Robert Zampieri ci porta dietro le quinte delle scelte che l’hanno traghettato dalla direzione di Mila a quella della Federazione Raiffeisen dell’Alto Adige. Assieme a lui ripercorreremo le tappe del suo passaggio da un progetto ad un altro, ma parleremo anche di persone, metodo e squadra.

 

Hai lasciato Mila da meno di un anno. A posteriori, quanto è stato importante mettere in ordine le cose prima di iniziare il tuo nuovo progetto?

È stato fondamentale. Non sarei mai stato capace di lasciare l'azienda in disordine. Il mio obiettivo era quello di chiudere tutti i progetti, o almeno di avviarli. Sentivo che si stava per chiudere un ciclo e posso dire di aver fatto tutto quello che dovevo fare. Non solo per il bene di Mila, ma anche per il mio: è difficile iniziare qualcosa di nuovo se non hai la mente libera. Iniziare una nuova avventura, affrontare nuove sfide, richiede molta energia e non ti puoi permettere di perdere nemmeno un minuto per pensare a quello che ti sei lasciato alle spalle di sospeso oppure incompiuto.

 

Come hai gestito il passaggio di consegne?

Ho avuto la fortuna di poter contribuire alla scelta del mio successore, trovando in un certo senso una persona che compensasse quelli che erano stati i miei punti deboli. Si trattava di un apprezzato consulente che aveva seguito per anni la nostra strategia e che conosceva molto bene sia il mio metodo che il mio modo di fare squadra. Il fatto che fosse un consulente esterno gli ha permesso di non subire la gerarchia interna, osservare il meccanismo aziendale nel complesso e comprendere le logiche organizzative, le dinamiche interne, perfino il carattere di alcune persone.

Oggi so che ha fatto giustamente delle lievi correzioni di rotta, diciamo così, per seguire di più il suo stile. Il metodo e la gestione della squadra però sono rimasti più o meno gli stessi e questo mi fa piacere, perché significa che negli anni abbiamo fatto un buon lavoro, soprattutto di squadra.

 

Parliamo del tuo arrivo in Raiffeisen. Com’è stato iniziare in un nuovo progetto?

Quando sono entrato ho subito notato che gran parte dei responsabili e dei dirigenti erano educati e gestiti in un modo diverso da quello a cui ero abituato io. Quando però abbiamo superato i primi momenti di diffidenza, ho capito che avevano sposato quel metodo non tanto perché ne fossero convinti, quanto perché quello era il modello che gli era stato chiesto di seguire.

È chiaro che se non fosse stato così, se quello fosse stato il metodo al quale erano più legati, e se si fosse dimostrato anche il più efficiente, allora mi sarei dovuto adeguare io, ma non ce n’è stato bisogno. Ho dato loro la possibilità di cambiare e ho scoperto che era quello che volevano e li faceva sentire a loro agio.

 

Hai incontrato delle resistenze particolari?

Quando vuoi cambiare qualcosa le resistenze fanno parte del gioco. Quella che sopporto meno, però, è quella legata alla burocrazia. Le cose cambiano velocemente e il tempo è sempre meno. Se ci permettiamo di nasconderci dietro alle regole, allora diventiamo lenti e questo non va bene. Le regole vanno rispettate, ma non possono diventare degli alibi.

Tutti vogliamo ottenere dei risultati e vogliamo ottenerli subito, non tra cinque anni. Purtroppo, se c’è una cosa che non ho quella è la pazienza, lo ammetto. Per spronarli prendevo spesso ad esempio Mila, forse troppo.

A distanza di sei mesi ho promesso che non avrei più fatto paragoni. Avremmo iniziato a gestire problemi e progetti assieme, creando un metodo che fosse nostro, della nostra squadra. Ho un carattere con poca pazienza, ma tanto pragmatismo!

 

Perché pensi che fare riferimento a Mila fosse un problema?

Continuando a prendere Mila come benchmark mi sono reso conto che avrei finito per impartire un metodo ex cathedra. Ironia della sorte, avrei ricalcato le orme del mio predecessore proprio mentre cercavo di allontanarmene. Abituati a quel modo di fare, tutti si sarebbero adeguati e io avrei pensato di aver creato un clima di convergenza, ma sarebbe stata solo un’illusione.

Per fortuna me ne sono accorto in tempo e insieme abbiamo avviato una nuova fase. La prossima settimana ci ritireremo tre giorni per dedicarci alla strategia aziendale. Da soli, senza nessun consulente.

 

Perché questa scelta? La consulenza a volte può aiutare…

Il mio predecessore si appoggiava alla consulenza in ogni progetto, ma io sono di un parere diverso. La consulenza può essere uno strumento utile, ma non deve sollevarti né dalla responsabilità del processo né da quello del risultato.

Appoggiarsi ai consulenti è comodo, ti alleggerisce un po’ le spalle, ma può rivelarsi una lama a doppio taglio, perché a volte diventa una scusa per non fare il proprio lavoro.

Uno dei miei obiettivi, appena entrato in Raiffeisen, era quello di spronare le persone a crescere, e in un primo momento la consulenza poteva trasformarsi in una scusa troppo facile per chi non aveva voglia di mettersi in gioco.

Quando apporti un cambiamento, c’è chi prende la palla al balzo e chi è un po’ più lento a lasciare le vecchie abitudini. Quello che devi fare è prenderli per mano, dando loro lo spazio per esprimere il proprio talento e la propria creatività. Se però lasci che si nascondano dietro a degli alibi, allora diventa tutto più difficile. Dopo che hai lavorato per tanto tempo all’interno di una gerarchia forte, sei abituato a vederti privare della responsabilità dell’iniziativa e riacquistarla non è semplice come potresti pensare. L’importante è far capire alle persone che commettere degli errori è normale quando si cerca di migliorare.

Chi sbaglia non viene fucilato.

 

Parliamo di persone. Con il tuo arrivo la squadra è rimasta intatta, oppure ci sono stati dei cambiamenti?

A volte fare dei cambiamenti nella squadra è inevitabile. Quando sono entrato, lo scorso autunno, sapevo già dove avrei trovato dei comportamenti che non collimavano con la direzione che volevo intraprendere. Questo, per qualcuno, ha significato imboccare una strada differente dalla nostra. Dopotutto, quando sai che un ufficiale non è adatto alla battaglia che vuoi combattere, non puoi fare altro che separartene. E questo per mille motivi, che non per forza riguardano le sue abilità o competenze.

So che questo a volte può farmi sembrare un po’ severo. A tanti, me compreso, piacerebbe un metodo più mite, ma la verità è che non esiste. Il nostro obiettivo è quello di portare avanti l'azienda: siamo responsabili verso i nostri soci, i quali sono anche i nostri proprietari, e questo comporta che se c’è un modo per migliorare, allora dobbiamo farlo.Nelle cooperative spesso c’è questa idea che una volta ottenuto il posto non te lo tolga più nessuno, un po’ come accade nella Pubblica Amministrazione. Questa è una cosa che non accetto, anzi detesto. Siamo qui per ottenere dei risultati, e se sul mercato c'è chi sta facendo meglio di noi, quello deve essere il nostro benchmark. Contrariamente, seguire la volontà dei soci non è sempre una buona idea. In alcune cooperative potrebbero chiederti l’impossibile, mentre in altre potresti riposare fino alla pensione. In entrambi i casi non si tratta di una prospettiva molto allettante. Il mercato ti offre un termine di paragone più oggettivo. L’importante, per ottenere dei buoni risultati, è pretendere da te oggi quello che l’azienda ti chiederà domani. Dobbiamo riuscire a vivere la visione prima che te lo chiedano gli altri, perché se arrivano a chiedertelo allora è già troppo tardi (sorride, ndr).

 

A proposito di risultati, quale ruolo gioca la squadra nel raggiungimento degli obiettivi?

Ogni risultato è sempre un risultato di squadra. Io fuori rappresento l’azienda, è vero, ma lo faccio solo per comunicare ciò che abbiamo ottenuto insieme. Non dico che il singolo non conti nulla, perché non è così, ma in un'azienda complessa come la Federazione Raiffeisen il singolo porta a casa poco solo, se non nulla.

È chiaro che la squadra è fatta di persone, e alle persone devi dare tutta l’importanza che meritano. Se posso dormire sonni tranquilli, in un certo senso, è grazie anche all’impegno dei miei colleghi. Io forse sono il più adatto a comunicare all’esterno, ma per il resto sono e mi sento primo inter pares, davvero. Non ci sono retroscena che gli altri non conoscano. Avere uno scambio in piena trasparenza con i tuoi colleghi più stretti aiuta tanto, perché responsabilizza tutti. Anche quelli che non sono direttamente coinvolti nel progetto.

 

Mi hai detto che state creando un nuovo metodo, più condiviso, capace di puntare al futuro. Come lo state facendo?

Personalmente, sono abituato a mettere le mie emozioni sul piatto. Ho scoperto, negli anni, che quando lo fai, quando ti esponi, poi lo fanno anche gli altri. A quel punto trovare una soluzione è più semplice.

Appena entrato sono stato molto sincero, ho condiviso le resistenze che sentivo dentro di me rispetto al metodo che ho trovato, ma mi sono anche messo a disposizione della squadra. Se mi avessero dimostrato che avevo torto, avrei accettato di adeguarmi. Ci siamo venuti incontro e abbiamo iniziato a percorrere una via comune per trovare una soluzione che non fosse né solo mia, né solo loro, ma nostra.

Far vedere i propri sentimenti, mostrarsi vulnerabili, non è semplice. Ma preferisco così piuttosto che nascondermi dietro alla gerarchia, giustificando le mie scelte attraverso il ruolo. L’autorità, a mio avviso, è lo strumento dei deboli e degli insicuri.

 

Quest'anno Mark You parla di metodo. Che cos'è per te il metodo, e quanto è importante?

Il metodo è importante perché fissa un inizio e una fine. Senza metodo non hai una direzione, e senza una direzione ti ritroverai sempre in alto mare. Tutto quello che sta in mezzo, però, penso sia molto più legato alla nostra anima, ai nostri sentimenti. Allo stomaco e alla serenità che abbiamo nell’affrontare le cose, tenendo a mente che dovrà sempre esserci quell’agilità necessaria a superare gli ostacoli... o a cambiare rotta, se necessario.

Il metodo è importante, su questo non ci sono dubbi. Qualche volta, però, bisogna anche saperlo tradire se vuoi raggiungere quegli obiettivi che fanno parte anche dei tuoi sogni.

 

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