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Cosa si nasconde dietro le grandi performance sportive? Ce lo racconta Francesco Cuzzolin, Head of performance di Olimpia Milano.

Attraverso il ruolo cruciale dei dati, la coordinazione tra diversi specialisti e l'importanza della condivisione all'interno di un team complesso, Francesco ci offre uno spaccato delle strategie e delle metodologie che portano gli atleti ai vertici della loro forma fisica e mentale.

Che cos’è, e di che cosa si occupa un performance team?

Il performance team è la squadra a supporto della squadra. È composto dallo staff medico, lo staff fisioterapico, lo staff dei preparatori e lo staff dei nutrizionisti. Ci manca solo lo sport psicologyst, ma è la posizione è aperta e prima o poi la occuperemo.
Per quanto concerne le attività, queste variano in base alle aree di competenza. La parte medica si occupa della diagnostica e dello stato di salute dei giocatori, mentre il resto del gruppo produce delle valutazioni che registrano le performance dell’atleta nell’arco del tempo. Le esperienze passate, gli infortuni… ma anche le attività quotidiane, i carichi di lavoro e tanto altro. Qualunque cosa possa tornare utile per definire un piano di lavoro individuale, noi lo tracciamo. L’obiettivo è quello di fornire allo staff tecnico le informazioni di cui ha bisogno per ottimizzare le sue scelte.


Puoi farmi un esempio di una “giornata tipo”?

La mattina, quando l'atleta arriva, la prima cosa che facciamo è valutare la qualità del recupero. Ha dormito bene? È stanco? Ha dolori? Subito dopo l'atleta fa un check fisico per capire che tipo di disponibilità ha verso l'allenamento.
Durante l’allenamento viene registrato tutto, dalla distanza percorsa al tipo di impatto che un salto ha generato sulle sue articolazioni. Una volta finito si fa un secondo check medico per capire com’è cambiata la situazione iniziale. Ma poi ci sono anche i test fisici, quelli sulla composizione corporea, le verifiche sulle asimmetrie muscolari, i test posturali… C'è un mondo di informazioni che vengono raccolte, analizzate e prioritizzate col fine di redigere un report giornaliero che possa aiutare gli allenatori a conoscere le forze che hanno a disposizione.


Quanto è centrale il dato, nel tuo lavoro?

Tutto parte dai dati, ma non tutti i dati sono importanti allo stesso modo. Se chiedi all'atleta come si sente è un dato soggettivo che ha un valore minore rispetto alla misurazione fatta con gli accelerometri inerziali. In ogni caso è importante raccogliere tutto, esattamente come fa un'azienda quando si interfaccia con i dati di mercato. Se hai i dati che ti servono, prendere delle scelte corrette è più semplice.


Mi sembra di capire che dietro alla parola performance si nascondano aspetti diversi…

La performance può essere individuale o collettiva, tecnica, fisica, emotiva o cognitiva. Ognuna di queste componenti influenza la performance di un atleta. Un giocatore che scende in campo deve riuscire a gestire le sue azioni da un punto di vista tecnico, tattico ed emotivo nel migliore dei modi, e farlo non è scontato visto il numero di partite che giochiamo in un anno.
Ma la performance non è solo sportiva. Anche un manager aziendale deve curare quelle dinamiche che ne influenzano le prestazioni.


Nel tuo lavoro devi coordinare molti professionisti. Come gestisci gli output di un team così complesso?

Ho la fortuna di lavorare assieme a grandi professionisti e questo è un fattore che agevola il confronto. Mi piace trovare delle procedure che siano frutto del dialogo perché crediamo molto nel concetto di transdisciplinarietà, nella possibilità di imparare l'uno all'altro.
Prendiamo l’esempio di un infortunio. Il nostro compito è quello di rimettere il giocatore in campo. Prima di tutto ci serve una diagnostica chiara e documentata, facile da condividere. Subito dopo inizia il percorso riabilitativo, ma non è un percorso chiuso. Lo staff impegnato nella riabilitazione lavora assieme a quello nutrizionale, perché un atleta infortunato consuma meno e ha bisogno di una dieta diversa. In più deve avere un programma di lavoro funzionale a mantenere la condizione atletica, senza però compromettere il percorso riabilitativo. È molto importante fare in modo che l'atleta infortunato non diventi un paziente. Non deve dimenticarsi di essere un giocatore, quindi va tenuto in contatto con la parte agonistica tramite la partecipazione agli allenamenti, i video tecnici e lo sviluppo tattico che la squadra sta facendo. L’obiettivo è uno solo, ma come vedi le professionalità in gioco sono tante.
È importante dire che tutto questo non viene fatto in maniera spontanea. L’approccio alla transdisciplinarietà va condiviso. Vanno discussi i dettagli e dai dettagli va disegnata una mappa comune, capace di dare allo staff tecnico una previsione di quando potrà contare nuovamente sul giocatore.


Hai detto che il processo di condivisione non è automatico all’interno del team. Tu come l’hai ottenuto?

Abbiamo definito una sequenza di condivisione capace di adattarsi ai diversi flussi di lavoro.
Ti ho fatto l'esempio dell'infortunio, dove è normale che la sequenza di condivisione parta dalla diagnostica. Ma immagina di avere un giocatore che si trova in una condizione fisica non ottimale, ecco che l'input arriva dai preparatori, oppure dall’osteopata. Ognuno è responsabile di rilevare e sottolineare quegli aspetti critici che metteranno in moto la task force di cui ti ho parlato. La sorgente quindi può essere diversa quando si tratta di evidenziare un problema, ma poi lo si risolve insieme.


È una metodologia che c’è sempre stata, oppure è frutto della tua esperienza?

È stata una conquista, un’evoluzione nata dall’opportunità di lavorare con organizzazioni e federazioni diverse.
Lo sport di squadra è diventato molto esigente negli ultimi anni. È aumentato il numero di partite e quello dei giocatori da gestire. Allo stesso modo sono aumentate le informazioni da tracciare e da elaborare. Il grande vantaggio di avere delle procedure operative non è solo quello di mettere ordine nell’operatività quotidiana, ma anche di fare tesoro delle difficoltà, imparando dall'esperienza.
Ogni organizzazione affronta delle situazioni che si ripetono. Il fatto di poterle tracciare e condividere rappresenta un grande vantaggio.
Ma la condivisione riguarda anche i team esterni: oggi ogni giocatore ha il suo staff personale. Condividere la diagnostica con loro, così come le procedure di allenamento e tutto il resto, è diventato normale. Con il vantaggio che ognuno porta il suo bagaglio di conoscenze e le sue esperienze professionali. Se non avessimo questo modus operandi sarebbe tutto più complesso, perché lo sport professionistico si muove in un mondo di complessità. Il nostro sforzo è quello di predisporci per affrontare queste complessità performando al meglio. Che poi è molto simile a quello che accade nelle aziende.


Ci sono mai contrasti tra il team interno alla squadra e quello del giocatore? Come li risolvi?

Contrattualmente i giocatori sono liberi di chiedere una second opinion. Riprendendo l’esempio dell’infortunio, noi facciamo la diagnostica e su quella una proposta di intervento, poi però il giocatore può chiedere un parere al suo specialista. In medicina non c'è mai la certezza che la diagnosi sia sicura al 100%, quindi se c’è una seconda opinione siamo sempre aperti al confronto. È logico che il giocatore ha comunque un contratto con una società, quindi se ci sono visioni divergenti ci si siede e se ne parla. Ma sempre per il bene del giocatore, perché il bene del giocatore è il bene della squadra.
Sono sincero, è raro che ci siano grandi contrasti. Alla base del confronto ci sono sempre informazioni oggettive, dati e numeri che possono essere verificati. Possono esserci interpretazioni diverse, ma si arriva sempre ad un punto comune.


Hai lavorato con tante squadre in paesi diversi. Quando si parla di condivisione - del dato, degli obiettivi, delle procedure - hai notato differenze particolari nel tipo di approccio?

Non penso sia una questione di cultura, ma di organizzazione. Un'organizzazione forte ha lavorato per costruire delle procedure solide e per avere le persone giuste al posto giusto. Si impegna per migliorare e generare l'evoluzione continua di cui ha bisogno.
Non tutte le organizzazioni sono così forti da poter mettere in atto tutto questo. Molte volte la condivisione spaventa. È più facile una gestione top down, anche se è più rischiosa e meno qualitativa, rispetto a una gestione trasversale dove tutti sono coinvolti.
La verità è che se io ho un collaboratore che non mi dice quello che pensa, alla fine mi serve a poco. Ben vengano i contraddittori, soprattutto se sono motivati. Se poi chi li solleva mi porta anche la soluzione del problema, magari più di una così la decidiamo insieme, non posso chiedere di meglio.


Come si crea un ambiente di condivisione come quello di cui mi parli?

È una scelta gestionale, dei ruoli e delle responsabilità. Condividere però non significa che il capo abbia meno potere, perché dovrà comunque dare la propria opinione e prendere l’ultima decisione. Però non è un re solo.
Ti faccio un parallelo con la gestione della famiglia. Io ho la fortuna di avere tre figli, ai quali ho sempre voluto dare fiducia. Questo non significa che non abbia messo delle regole, anzi. Dare fiducia però significa dare loro l’opportunità di essere responsabili. Come in un’organizzazione, non potrai mai controllare tutto. E le migliorie dipendono anche da quello che fanno gli altri. Lavorare con persone che si sentono coinvolte e responsabili in un progetto rende tutto più semplice ed efficiente.

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