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Agape è una realtà italiana impegnata nella progettazione e nella produzione di arredamento per la stanza da bagno.

 

Nata nei primi anni ’70, per lungo tempo ha anticipato il mercato di settore grazie ai progetti disegnati dal fondatore Giampaolo, portando il design dei suoi prodotti ad un livello fino ad allora inesplorato.

Oggi Agape è famosa in tutto il mondo e raccoglie finalmente i frutti di una visione lungimirante e (spesso) spregiudicata.

 

 

Se dovesse descrivere Agape con una frase, quale sarebbe?

La descriverei come un ‘progettificio’ che lavora sul progetto della stanza da bagno, disegnando e producendo i prodotti che gli sono necessari.

Se poi mi chiedesse il perché qualcuno dovrebbe sceglierci, le risponderei con la longevità e la complementarietà che contraddistinguono i nostri prodotti.

La nostra gamma, anche se progettata da designer diversi, risponde infatti ad un canone estetico che è sempre il nostro, quello di Agape. Questo permette al cliente di abbinare oggetti diversi tra loro anche se sono nati a vent’anni di distanza l’uno dall’altro.

Rispetto invece alla loro longevità, mi è capitato più volte di incontrare dei clienti che avevano acquistato un nostro bagno da più di venticinque anni e, nonostante il tempo, se ne dicevano ancora felicissimi per la qualità e l’attualità.

 

 

Facciamo un passo indietro. Com’è nata l’azienda?

I miei genitori avevano un albergo a Riccione. Io stesso sono nato in una stanza d’albergo. Ad un certo punto, però, ho capito che fare l’albergatore non mi piaceva, così ho iniziato gli studi di architettura.

Nel frattempo mio fratello Giampaolo, che ha undici anni in più di me, aveva aperto e portato avanti agape insieme ai nostri cugini.

A muoverci non c’era una visione particolare, l’avevamo fatto piuttosto come investimento, coinvolti da questi parenti che erano dei grossisti di materiale termo sanitario.

Avevano convinto nostro padre dicendo che si sarebbero occupati di tutto, dalla produzione alla commercializzazione, mentre Giampaolo avrebbe disegnato i prodotti.

Le cose però non andarono così. Qualche anno dopo loro uscirono e, obtorto collo, io entrai in azienda.

 

 

Fare l’imprenditore non era il suo sogno?

Nessuno di noi ha mai sognato di fare l’imprenditore. Dopotutto, quando Agape è nata io non ero neppure diplomato.

Al tempo ero un ragazzo scapestrato e a scuola non andavo bene, avevo un’indole da ribelle e faticavo a rispettare le regole.

Pure mio fratello non era appassionato degli studi, anche se poi ha trovato la sua strada nella progettazione.

Il mio sogno invece era quello di correre in macchina, di fare il pilota.

Sono stati gli eventi, inizialmente, a portarmi sulla strada dell’imprenditoria.

 

 

Quali sono state le prime difficoltà?

Appena entrato in azienda ho capito subito due cose. La prima era che non potevamo solo relazionarci con il mercato dei rivenditori di bagni.

La seconda, di conseguenza alla prima, è che dovevamo rivolgerci ai rivenditori di arredamento. E questo principalmente per un motivo, e cioè che il rivenditore di arredamento è spesso un progettista. Aveva quindi una spiccata sensibilità per i prodotti ben disegnati e questo giocava a nostro favore, perché in quegli anni il design dei prodotti da bagno non esisteva.

Siamo stati noi a portarcelo, se non altro perché era il nostro modo di fare le cose. Non avremmo mai potuto creare un prodotto disegnato al di fuori delle regole del buon design.

 

 

Lavorare con i rivenditori di arredo è stato più semplice?

Al contrario, è stata una sfida, perché per lavorare con loro abbiamo dovuto completare la gamma con ogni tipo di prodotto. Per completare il progetto avevano bisogno di tutte le componenti e se non le trovavano da noi erano costretti a cercarle altrove.

Per evitare che aprissero le porte ad altre aziende abbiamo quindi fatto un enorme sforzo di progettazione e di produzione, sottovalutando un po’ le complessità legate allo sviluppo delle tecnologie di cui avevamo bisogno.

Nel tempo è come se avessimo costruito quattro aziende diverse: una per i rubinetti, una per i sanitari, una per i mobili e un’altra per i box doccia.

È stato un lavoro lungo e impegnativo.

 

 

Oggi oltre il 70% del fatturato di Agape è all’estero. Come ci siete riusciti?

Eravamo ancora piccoli quando ho pensato di iniziare a guardare fuori dall’Italia. L’ho fatto perché il nostro è uno dei mercati più competitivi al mondo.

Lo era a quei tempi e penso lo sia ancora oggi.

La quantità di aziende produttrici, di varie dimensioni e con poca etica del progetto, è tale che devi sgomitare tantissimo per guadagnarti uno spazio. Senza contare che i rivenditori che fanno delle scelte precise sono delle perle rare. Soprattutto per il mondo del bagno, la loro preferenza è quella di offrire molte alternative per uno stesso prodotto.

 

 

Quando Agape è nata, il bagno era la parte progettualmente più trascurata della casa. Possiamo dire che vi siete trovati nel posto giusto al momento giusto?

La verità è che è stata un’evoluzione lunga e faticosa.

Dico davvero. Perché quando sei un outsider è un attimo trovarti a lottare contro i mulini a vento.

Chi ci guardava ci dava per matti: nessuno aveva mai provato a fare quello che stavamo facendo noi. Rispetto anche alle complessità tecnologiche che abbiamo dovuto sostenere per lo sviluppo dei nostri prodotti, affrontare uno sforzo simile per un’azienda delle nostre dimensioni è stato qualcosa di veramente anomalo.

Siamo sempre stati degli anticipatori e questo ci ha richiesto anni di grande impegno prima di riuscire a mettere a frutto le nostre idee. Oggi, però, possiamo vantare delle caratteristiche difficili da replicare.

 

 

Anche all’estero avete trovato una situazione simile?

Le logiche commerciali italiane sono completamente diverse da quelle degli altri paesi del mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, non esistono punti vendita nel settore del bagno adatti a vendere i nostri prodotti. Il loro mercato dell’arredamento, che è poi quello a cui ci siamo rivolti, è fatto di pochi ed è molto selettivo. Il mercato più vicino a quello italiano è forse quello dell’area tedesca, dove siamo forti e presenti da tantissimo tempo.

La Francia invece è rimasta per molti anni in mano ai grossisti, così come il Belgio e l’Olanda, rendendoci difficile riuscire ad entrare in quei paesi.

Ci sono poi mercati dove le abitudini del bagno sono completamente diverse, come in Giappone dove siamo presenti da tempo con alterna fortuna.

 

 

Diverse in che modo?

I giapponesi hanno una concezione del bagno differente dalla nostra. Hanno questo grande spazio dove l’acqua circola e la doccia è aperta. Cambiando le abitudini cambiano ovviamente anche le tecnologie utilizzate.

Vendere alcuni prodotti europei in Giappone non è così semplice.

 

 

Prima mi ha parlato della longevità dei prodotti Agape. Da cosa nasce l’atemporalità dei vostri oggetti?

L’atemporalità nasce dalla sincerità e questa, così come il design, si origina dalla curiosità. È la curiosità che ci spinge a vedere il mondo in un modo diverso, ad attribuire ad una forma una nuova funzione.

Anche i materiali che abbiamo scelto puntano all’atemporalità dell’oggetto, perché permettono di raggiungere un tempo di utilizzo pressoché eterno.
Ma poi l’atemporalità di un prodotto ha a che fare anche con il suo godimento estetico. Le faccio un esempio al di fuori della nostra realtà aziendale.

Quando compri un tavolo di Mangiarotti, già lo sai che ti durerà tutta la vita. Perché quello che compri non è solo un oggetto con una funzione, ma una scultura che ti dà piacere osservare. Questo godimento non ha una data di scadenza, così come non ce l’hanno un dipinto o un’altra opera d’arte.

I nostri prodotti quindi durano nel tempo proprio grazie a questa sincerità progettuale. Al fatto che non ci ispiriamo mai a dei prodotti che esistono già, né alle mode o ai gusti passeggeri.

Eppure, il mercato di oggi ci spinge spesso a cercare il cambiamento. Se il consumatore medio è intrappolato in una continua ricerca del nuovo, chi è il cliente Agape?
Il nostro cliente è quello che non vorrebbe cambiare mai. Quello che, cambiando casa, vorrebbe portare con sé gli stessi pezzi nella casa nuova.

Io stesso sono per la durabilità in tutto, faccio molta fatica a buttare via qualcosa.

L’altro giorno avevo tra le mani una lampada di Noguchi, una lampada di carta che ha ormai trent’anni. Col tempo la carta si stava screpolando e la lampada sarebbe collassata da lì a poco. Per fortuna sono riuscito a trovare chi me la riparasse, poco importa se l'intervento si vede. È un po’ il concetto del wabi-sabi giapponese: le cose assumono maggiore nobiltà quando sono riparate. Ovviamente si possono preservare solo alcune parti di ciò che si aggiusta, ma l’anima dell’oggetto rimane intatta.

Rispetto al consumismo, penso che ormai stia attraversando una fase terminale. Basta guardare le abitudini dei giovani: seguono sempre meno la moda e anche loro desiderano cose che durino nel tempo. Sono i primi ad avere un atteggiamento virtuoso e sostenibile e hanno capito che più cose comprano, più ne buttano via, riempiendo il mondo di ciarpame.

 

 

Parla di ciarpame e all’opposto mi vengono in mente le forme di Agape. Forme pulite, poco rumorose. Anche il design può contribuire ad un mondo più pulito? 

Sì. Non ci sono mai piaciute le cose che fanno rumore, quelle che luccicano e che hanno una scadenza stagionale. Il buon design è tale anche perché dura nel tempo.

 

 

Un’ultima domanda. Lungo il vostro percorso, quanto è stato importante restare fedeli alla vostra identità aziendale?

Non ci sarebbe stato un altro modo di fare le cose.

Non faremmo mai un prodotto che non ci piace solo perché è richiesto dal mercato. Ce ne siamo guardati anche quando i numeri ci avrebbero consigliato di farlo.

Essere rimasti fedeli a noi stessi ci ha permesso di creare coerenza, e questa coerenza permette ancora oggi di accostare tra di loro oggetti che sono nati in epoche diverse.

Ottenere qualcosa del genere è molto difficile, ma è questo che il cliente cerca. La possibilità di creare un mix che permetta all’arredo di esprimere i suoi gusti.

Tutto questo è stato possibile solo grazie alla nostra coerenza. Al coraggio di guardare avanti, alla volontà di persistere nelle nostre idee e, perché no, anche ad un po’ di fatalismo, senza il quale non si possono cambiare le cose.

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