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  4. L’impresa in eredità: una scelta o un destino?

“Hei ciao, è dai tempi dell’Università che non ci vediamo! Di cosa ti occupi ora?”

“Ciao, in effetti è passato molto tempo. Lavoro nell’azienda di famiglia”

“Ah si? E come mai?”

“In che senso, scusa?!”

Quante volte nella vita ho percepito che entrare nell’azienda di famiglia fosse una sorta di scelta obbligata.

Una forzatura dalla quale, spesso, nascono molti problemi.

Decidere di fare l’imprenditore è un passo delicato che ha a che fare non solo con la nostra parte razionale, ma anche - anzi, soprattutto - con quella emotiva e intangibile.

Prendersi cura dell’azienda di famiglia è una scelta importante e va condivisa con tutti i suoi membri. Non si può entrare solo per cognome: va fatta una scelta responsabile. Il futuro dell’azienda deve diventare la nostra missione di vita.

Per farlo bisogna prima conoscere l’azienda in profondità e carpirne l’anima, possibilmente fecendosela raccontare da chi l'ha fondata o da chi l’ha presa in custodia prima di noi. 

 

Spesso, però, tutto questo non succede, e quando si entra nell'azienda di famiglia il rischio che si corre è quello di diventare dei passeggeri che non si rendono conto né del viaggio né del mezzo sul quale si trovano. E quando chi ha pilotato l'aereo fino a questo momento scenderà, ci si troverà impreparati a doverlo sostituire, mettendo a repentaglio la sicurezza tanto dell'aereo quanto dei suoi passeggeri.

 

Purtroppo o per fortuna, lo spirito imprenditoriale, l’intraprendenza, la malizia positiva, la sensibilità e la passione non sono valori che si trasmettono geneticamente. Sono predisposizioni per lo più caratteriali, e quindi o le abbiamo o non le abbiamo.

 

Il fatto è che accettare (o, come capita più spesso, subire) una sfida importante senza avere le caratteristiche necessarie per portarla avanti, rischia di rendere l’azienda un posto ben diverso da quel luogo entusiasmante dove poter creare, cullare e sviluppare le proprie idee e i propri progetti di crescita.

 

Mettersi alla guida di un’azienda con l’approccio del passeggero rischia di creare un corto circuito emotivo e funzionale pericoloso, perché la sua struttura organizzativa è nata e cresciuta grazie alle risposte sicure e alle decisioni coraggiose del leader che l’ha fondata e fatta crescere. Se tutto questo non viene ritrovato, si rischia di cercarlo altrove. Magari nei collaboratori storici, oppure in quelli intraprendenti che per il bene dell’azienda si buttano nella mischia. Tutto questo rischia però di mettere in disordine l’organizzazione, scollando i ruoli ufficiali da quelli reali e disperdendo molta più energia di quella necessaria per la gestione delle relazioni e dell’operatività interne. Il clima di fiducia sarà basso e, come sempre in queste situazioni, si faticherà a dirlo. La vita aziendale procederà gravata dal peso delle parole non dette. Parole silenziose, spesso appunto taciute, ma che producono sempre delle azioni ben precise in contrasto con il bene dell’azienda, perché innescano dinamiche sfavorevoli alla collaborazione e alla felicità del gruppo.

 

Personalmente, credo che essere imprenditore significhi anche sapersi prendere cura di tutto questo, per il bene della famiglia ma anche e soprattutto per il bene dell’azienda. Nella pratica, questo può voler dire prendere coscienza di una verità nella quale spesso facciamo fatica a credere, ma che i fatti non si stancano mai di ricordarci. E cioè che se io sono stato un grande imprenditore, non significa che potrà o dovrà esserlo per forza anche mio figlio.

 

Quello che posso fare, come imprenditore, è prima di tutto accettare questa semplice (e antipatica) possibilità.

Secondariamente, è sempre bene iniziare a stimolare per tempo la stessa consapevolezza anche in famiglia, disinnescando il senso di protezione materno che vorrebbe vedere il figlio o la figlia sistemati in azienda. Parlo delle madri perché, anche se spesso non ricoprono un ruolo in azienda, in qualche modo la condizionano attraverso il loro rapporto col marito o coi figli. Tutto questo non per forza è sbagliato, ma lo diventa quando la madre si comporta da tale anche quando pensa all’azienda, dimenticandosi che il mondo delle imprese è un mondo separato da quello familiare e che, per il suo stesso bene, non dovrebbe seguire determinate logiche.

Infine, è importante alimentare le reali passioni dei figli, cercando di sostenerle anche quando prendono direzione differenti da quelle che avevamo immaginato per loro.

 

Mettere a guida dell’azienda mio figlio anche quando non ne ha le potenzialità o le caratteristiche, significherebbe fare un grave torto a lui quanto all’azienda stessa. Goccia dopo goccia - ma, in alcuni casi, anche di colpo, come una diga che cede - verrebbe disperso tutto il valore creato lungo decenni di sfide imprenditoriali.

 

L’invito che vorrei fare a tutti gli imprenditori, quindi, è quello di gestire con responsabilità questa scelta. Perché dev’essere una scelta, appunto, e non una strada obbligata.

Affinché la nuova generazione sia in grado di prendere le redini dell’impresa, serviranno da parte sua molti sacrifici, fatica e duro lavoro. Senza un adeguato bagaglio di passione e di motivazione, come potremmo pretendere che portino a termine il percorso di maturazione necessaria a prendere il nostro posto?

 

Infine, non sottovalutate mai la fase della convivenza generazionale. Qui la parola d’ordine dovrà essere rispetto. Rispetto da parte della nuova generazione per ciò che eredita, ma anche da parte della generazione presente per l’impegno e le difficoltà che comunque i figli dovranno affrontare. La condivisione - di pensieri, di visioni, di compiti e di competenze - dovrà essere un elemento costante lungo tutte le giornate di lavoro. Se una cosa per noi è scontata, questo non significa che lo sia anche per i nostri figli: condividete con loro anche i dettagli più piccoli, perché tutto sarà per loro prezioso e utile.

 

Ricordate che affinchè l’organizzazione possa accettare e gestire in modo sereno il passaggio generazionale, sarà importante organizzarlo con intelligenza ed attenzione. Quando si sarà coinvolti in una riunione con altri collaboratori, il ruolo del figlio sarà operativo o manageriale e quindi dovrà interagire con il ruolo che ricopre il genitore in azienda e non con suo padre o con sua madre. Se pecca in questo e noi non lo redarguiamo, si rischierà di inserire in azienda un virus difficile da debellare.

Il ruolo di figlio andrà vissuto al di fuori degli uffici e delle riunioni di lavoro, altrimenti si darà vita ad un'organizzazione disordinata, dove un manager è tale solo perché è il figlio di, e chi potrà parlare in un certo modo lo potrà fare solo e soltanto perché è in qualche modo privilegiato.

Se vogliamo che la nuova generazione sia riconosciuta ed accettata per i suoi meriti, in azienda non devono esistere deroghe speciali.

 

In conclusione, possiamo dire che non rispettare alcune semplici, ma fondamentali regole, può rendere il passaggio generazionale più delicato di quanto già non lo sia di per sé.

Ne vale davvero la pena?

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Davide Gabrielli
Scritto da Davide Gabrielli

Lo sviluppo è la mia vera mission. Cerco sempre di trovare il migliore equilibrio di ben-essere e sono convinto che, per sviluppare un eccellente progetto, serva avere molta energia positiva.

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