L’eccellenza non è un segreto
Gli chef nascondono davvero i loro segreti? Che ruolo ha la creatività in cucina, e come si affronta l’errore di un collaboratore?
Peter Brunel ci porta dietro le quinte del suo mondo culinario, raccontandoci il suo approccio al tema della condivisione.
Assieme a lui parleremo di ricette e di innovazione, ma anche di successo e di errori. Un viaggio che attraversa i segreti di un grande chef alla ricerca dell'eccellenza.
Quando si parla di condivisione in cucina, la prima immagine cui si pensa è quella del cuoco che si nasconde per aggiungere l’ingrediente segreto. È davvero così?
Ci sono due scuole di pensiero. Alcuni colleghi hanno un'apertura mentale più ampia, altri sono un po’ più chiusi. Evitano di condividere tutto perché pensano che dietro ad alcuni segreti si nasconda una performance superiore, un vantaggio competitivo di qualche tipo.
Io ho una visione diversa. Penso che una ricetta possa darti al massimo il 60% del risultato, mentre il resto lo fa il fattore umano. A parità di ricetta, in base alla padronanza che hai con la materia prima puoi ottenere risultati molto diversi.
Ti faccio un esempio banale. Potrei dirti che per ottenere un uovo sodo devi farlo bollire in acqua per 7 minuti. Tu però non sai se l’uovo lo devi mettere in pentola con l’acqua fredda o quando inizia a bollire. E la temperatura dell’uovo? Se lo prendi dal frigo è diverso che averlo a temperatura ambiente. Un piccolo dettaglio come questo può farti ottenere un grado di cottura molto diverso.
La ricetta è una linea guida che ti aiuta a interpretare il prodotto, ma per ottenere un risultato eccellente devi avere la giusta sensibilità e la giusta conoscenza della materia prima. Ecco perché ai miei ragazzi cerco di trasferire prima di tutto questi aspetti.
Allo stesso tempo non nascondo nulla, perché una delle soddisfazioni più grandi è quella di vederli crescere. Tanti di loro nel tempo sono riusciti ad affermarsi come chef, qualcuno ha persino ottenuto la stella Michelin. Lasciare un segno indelebile nell’esperienza degli altri è una grande soddisfazione.
Non hai paura di condividere le tue ricette, sapendo che tanti di loro seguiranno la loro strada?
È una cosa che vivo con molta serenità, devo essere sincero. Assieme ad altri colleghi ho la fortuna di collocarmi all’apice del nostro settore, quindi sono consapevole di avere un vantaggio in più rispetto agli altri.
In Italia ci sono migliaia di cuochi, ma quanti di questi riescono ad emergere? In realtà pochissimi. Diventare chef significa non solo avere una conoscenza superiore alla media, ma anche sapersi destreggiare in un mondo complesso, articolato. Bisogna essere un cuoco eccellente, ma anche saper acquistare, trattare, scegliere e gestire lo staff. Forse è per questo che condividere le mie ricette non mi spaventa.
Certo, copiare non è una buona idea. Il rischio è quello di diventare una brutta copia. Sono contento se i miei ragazzi prendono spunto dai miei insegnamenti, ma poi devono manipolarli, rielaborarli fino a trovare la loro identità.
È diverso se l’intento è quello di omaggiare qualcuno, come fanno gli allievi di Gualtiero Marchesi riproponendo il risotto con la foglia d’oro. C’era chi lo faceva anche mentre era in vita, ma a quel punto aggiungeva sempre un tocco personale. Altrimenti perché qualcuno avrebbe dovuto mangiare la loro copia, invece dell’originale?
Parliamo di ricerca. Nel mondo aziendale, prima si identifica il bisogno delle persone e poi si costruisce un prodotto per soddisfare quel bisogno. Avviene lo stesso anche in cucina?
Anche in questo caso esistono dinamiche diverse, c'è chi segue un filone e chi segue l'altro. Personalmente collaboro con la ricerca e sviluppo di alcune aziende, dunque non creo solo le mie interpretazioni all'interno del ristorante. Nelle collaborazioni con il mondo industriale la prima esigenza è quella di andare incontro ai bisogni del mercato, ma quando sono all'interno delle mura di casa posso dare libero sfogo alle mie visioni più creative.
Penso al piatto Lofoten, nato dopo un viaggio in Norvegia. Sono andato lì per vedere come viene trasformato il merluzzo in stoccafisso, per scoprirne il processo e la storia. Una volta tornato in Italia ho sentito il desiderio di lasciare un segno capace di raccontare quell’esperienza, così ho realizzato un piatto che è poi diventato iconico.
Come dico sempre ai miei ragazzi, però, la creatività va dosata. Stupire non basta, la vera innovazione sopravvive alla prova del tempo.
Troppa creatività può fare male?
Può portarti fuori strada. Io, per esempio, quando realizzo qualcosa lo faccio da cuoco in cucina, poi però cambio veste, mi siedo a tavola e lo vivo da ospite. Questa è una cosa che insegno anche ai miei ragazzi. Ogni tanto è importante uscire dalla cucina, sedersi in sala e farsi servire dai colleghi. È importante vivere l'esperienza, provare i piatti che hai cucinato. In questo modo puoi capire tante cose, dalle tempistiche di servizio alle temperature di esecuzione del piatto.
Da giovane mi è capitato di immaginare alcune cose, realizzarle e poi rendermi conto che l'ospite viveva un’esperienza diversa. Per esempio, un piatto che a me pareva bellissimo si era poi rivelato poco pratico da mangiare.
Da lì ho iniziato a curare l’esperienza nel dettaglio. Dalle ricette alla mise en place, pianifico anche l’impostazione del servizio. Tutto per ottenere un livello superiore nell'esecuzione del piatto e nell’esperienza offerta all’ospite.
Possiamo dire che, alla fine, c’è sempre il momento in cui bisogna confrontarsi con il "mercato"?
Qualche sera fa ho portato le mie figlie a mangiare la pizza. Non avevo molta fame, così quando sul menù ho visto la tartare l’ho voluta provare. C’era scritto tagliata al coltello, ma assaggiandola ho percepito che era stata frullata. Rispetto alla carne, poi, i condimenti erano insufficienti.
Ho guardato le mie bambine e ho detto: questa è la differenza che c’è tra chi fa eccellenza e chi fa le cose senza pensarci. Che senso ha portarmi 200 grammi di carne, se poi ho solo due crostini di pane per accompagnarla? Non era un piatto ben pensato. Eppure, se il cuoco fosse stato in sala al mio posto, se ne sarebbe accorto anche lui. La risposta quindi è sì, ma non tutti se ne rendono conto.
Nella tua carriera hai raggiunto più volte il traguardo della stella Michelin. Come hai gestito questo obiettivo? L’hai mai condiviso con il tuo staff?
In realtà, la prima volta che ho ricevuto la stella non me l’ero posto come obiettivo. Ho sempre messo al primo posto l'estro, la voglia, la passione. Ho preso spunto da chi era più bravo di me e ho cercato di reinterpretarlo, creando una mia identità. Se vuoi ottenere dei risultati non devi lasciare che il sistema ti metta sotto pressione, perché se il tuo obiettivo è quello di ottenere una stella e non la ottieni, il rischio è quello di lasciarti ossessionare dal risultato. La cosa più importante è avere la serenità che ti serve per lavorare bene. Se ci riesci, i risultati arrivano.
Per quanto riguarda la condivisione dei miei obiettivi, ammetto di avere una personalità istrionica, per così dire. Mi prendo cura dell’esperienza all’interno del ristorante a 360 gradi e in questo tendo ad essere un solista, quindi tengo per me i progetti che ho in testa.
Questo non significa che tarpo le ali ai miei collaboratori. Quando qualcuno di loro ha un’idea, lascio che sia libero di sviluppare il suo piatto. Solo alla fine entro in scena con i miei pensieri, esprimendomi sul risultato finale.
Come affronti l’errore nella tua cucina?
Qualche tempo fa ho visto un documentario sulla cultura dell’insegnamento in giappone. Lì cercano di evitare le valutazioni che creano competitività tra gli studenti, perché sanno che non tutti reagiscono bene sotto pressione. È un pensiero che sposo in pieno. Non sono il tipo di chef che si mette a lanciare le padelle, se qualcuno sbaglia rivedo con lui il passaggio e andiamo avanti. Come dico ai ragazzi, loro sono il fiume e io l’argine. Finché riescono a muoversi all’interno di questo perimetro sono liberi di provare e di proporre, anche sbagliando. Se invece qualcuno scollina, a quel punto segue la sua strada ed è giusto che sia così.