Innovare per lavoro

Alessandro Garofalo, fondatore e CEO di "Garofalo e Idee Associate", è un pioniere nel campo dell'innovazione di prodotto. Con una carriera che abbraccia quarantasei di esperienze, Garofalo ha aiutato numerose aziende a trasformare le loro idee in realtà.
In questa intervista ci svela i segreti del suo approccio all'innovazione, il ruolo giocato dalla creatività e l'importanza di coinvolgere ogni livello aziendale lungo il percorso.

Per te, cosa significa fare innovazione?
Fare innovazione vuol dire trovare nuove soluzioni a problemi che sono stati posti. È molto diverso dall’essere creativi, innovare non vuol dire avere delle idee. Nel mio caso specifico, innovare vuol dire generare nuovi concept di prodotti o di servizi profittevoli per le aziende che mi chiamano.
Di chi sono i “problemi” di cui parli?
Dipende. A volte sono bisogni espressi dal cliente, arrivati all’azienda tramite dei reclami o delle richieste di miglioramento. Questo è lo scenario più comune. Poi però c'è un ramo di aziende illuminate che desiderano anticipare il futuro, leggere i trend e i segnali deboli del mercato per generare un nuovo prodotto. Qualcosa che le conduca in un oceano blu, come si dice in gergo. Infine ci sono le esigenze interne, la volontà dell’azienda di migliorare un processo sfruttando le tecniche messe a disposizione dal processo creativo.
Come vivi l'approccio di chi deve innescare un processo di innovazione dall’esterno? Incontri mai delle resistenze?
In oltre quaranta di attività non ho mai fatto marketing, né pubblicità. Le aziende che mi chiamano arrivano per lo più dal passaparola, quindi sanno già quello che faccio e spesso anche quello che vogliono fare. Non mi vedono come un disturbatore, ma più come un amico.
Rispetto al tema delle resistenze, negli ultimi anni ho cambiato alcune modalità operative. Se fino a dieci anni fa il mio interlocutore era esclusivamente il team di ricerca e sviluppo, oggi cerco di metterlo in minoranza. Nello specifico, includo nel gruppo solo un 30% di ricercatori aziendali, diciamo i veri innovatori interni, i cosiddetti cacciaviti d'oro, mentre per il restante 70% coinvolgo un rappresentante per ogni comparto aziendale. Dalla finanza al marketing, dalle spedizioni alla manutenzione. Infine aggiungo quelli che definisco zero gravity thinkers, persone con delle competenze interdisciplinari che non c'entrano apparentemente nulla con l’ambito affrontato. Sono esperti, artigiani e manager che hanno conoscenze in campi molto diversi e che possono portare un contributo inedito. Questo aiuta a ridurre e a semplificare i tempi di progettazione del nuovo prodotto.
Rimaniamo sulle resistenze interne. Come le risolvi?
Quando lavoravo esclusivamente con il reparto R&D la situazione era più delicata. Oggi i gruppi sono più variegati, quindi se c’è una persona ostile al progetto si trova comunque immersa in un contesto che cerca di portare avanti il lavoro. Questo gli dà la possibilità di adeguarsi senza sentirsi colpevolizzato. Che ci sia un avvocato del diavolo, un cappello nero come dice De Bono, fa parte delle regole del gioco. L'importante è che questa componente non superi la soglia del 30%. Se lo fa bisogna cambiare gruppo, perché l’innovazione non prenderà piede.
Coinvolgere tutta l’azienda nel processo di innovazione può essere faticoso. Perché questa scelta?
La creatività funziona se riesce a generare idee dal basso. È un principio fisico. Ecco perché devo potermi confrontare con tutti i livelli, dall'operaio all'impiegato. Chi, meglio dell'operatore, può conoscere il suo processo? Ho fatto hackathon con 1200 persone e gestito sessioni di creatività sfruttando strumenti online, come le piattaforme digitali, e offline, con risultati incredibili. L'importante è fare in modo che le persone possano portare il proprio contributo.
Qual è il vantaggio delle piattaforme digitali?
Le piattaforme digitali creano delle opportunità pazzesche per mettere in risalto la creatività delle persone. Uno dei grandi meriti che gli attribuisco è quello di aver permesso all’introverso - che dal mio punto di vista è il vero creativo - di portare il suo contributo. Chi avrebbe un po' di timore nel dire ciò che pensa, grazie alle piattaforme trova uno spazio sicuro dove poterlo fare. D'improvviso non c’è più l'imbarazzo di dover dire le cose davanti ai colleghi o ai capi, e questo è un grande vantaggio. C'è molta più condivisione e partecipazione dal basso, perché il contributo è anonimo.
Parlando di nuovi strumenti, anche l’intelligenza artificiale aiuta ad espandere la tavolozza della creatività, perché ci dà accesso a una mole di informazioni che altrimenti rimarrebbero precluse o ci vorrebbe molto più tempo per trattarle.
A proposito di intelligenza artificiale, come pensi impatterà sul tuo lavoro?
Sono molto positivo, anche se ci sono dei pro e dei contro. Per ora le emozioni e l'empatia rimangono un nostro appannaggio e questo fà sì che il guizzo creativo sia ancora nelle mani dell’uomo. Più avanti vedremo. Di sicuro lavorare con l’aiuto dell'intelligenza artificiale aumenta di molto le nostre capacità. Non è vero che distrugge la creatività, come dice qualcuno. Il pericolo semmai è per chi non è in grado di usarla, per chi si farà sommergere. Quando l'uomo, come dice Munari, diventerà pigro. E il pericolo esiste, perché quando potremo parlarci mentre siamo in macchina, e manca poco, preparando riunioni e CDA in modo impeccabile, sarà difficile scegliere di continuare a fare fatica. Sarà lì che perderemo lo smalto creativo.
Puoi approfondire questo aspetto?
Edison, che è stato un po' il mio riferimento quand’ero studente, diceva che il genio è 1% inspiration e 99% perspiration. Il guizzo creativo vale uno, mentre il restante novantanove è composto da metodo, disciplina, costanza. Serve pensiero critico, capacità di problem solving e project management. Sudore e fatica.
Sono stato presidente di Trentino Sviluppo per anni, ho visto nascere più di 500 start up. Non sai quante persone venivano a dirmi: “Dottore, ho un’idea!”. Vediamoci quando ne hai cento, gli rispondevo. Su cento forse ne funziona una, le altre novantanove sono lo spreco. Sono ridondanza. Ma è normale, la creatività vive di spreco. Più idee trovi, più il gruppo ne produce, più è alta la probabilità che ci sia qualcosa di buono. Ecco perché la fatica è fondamentale. Nessuno diventa miliardario uscendo dalla doccia; devi fare un prototipo, devi fare indagini di mercato, devi organizzare i canali di vendita… Molta gente questo non l'ha capito. Crede che avere un'idea gli dia il diritto di trovare un venture capitalist che investa su di lei, ma è tutto sbagliato.
Ancora una volta c’è un bel divario fra la teoria e la pratica. Un innovatore deve essere un campione in entrambi gli aspetti?
Sarebbe l’ipotesi migliore, ma trovare tutto questo in una persona è difficile. Ecco perché, quando si analizzano le start up, se c’è più di un socio è meglio. Mediamente uno è più vicino ai temi del marketing e dell’intangibile, l’altro alla produzione, al controllo e a tutto ciò che è tangibile. Ci vuole il visionario, il creativo, ma anche il metodico, il concreto. In quarant’anni di carriera ho incontrato solo quattro o cinque manager e imprenditori con entrambe queste caratteristiche. Di solito una delle due è predominante.
Immaginiamo di avere tra le mani un progetto innovativo. Come riesci a far sì che metta radici?
Per avere successo, un'innovazione deve nascere da quelle che chiamo idee forti. Le idee forti hanno delle caratteristiche precise. La prima riguarda il vantaggio; chi la utilizzerà dovrà capire al primo sguardo quale vantaggio avrà nel farlo. La seconda è la semplicità; una buona idea riduce il numero delle variabili. Su questo sono fiscale, se un’idea rende le cose più complesse non la prendo nemmeno in considerazione. La terza è che deve essere nuova, inedita. Che piaccia o no, deve generare l'effetto wow. La quarta è che deve emozionare; deve entrare nello stomaco, non solo nella testa. Ovviamente questo implica che dobbiamo saperla raccontare, l’abilità di narrazione è fondamentale. Tutti i prodotti che utilizziamo sono costituiti da una componente fattuale, cioè dalle caratteristiche tecniche e materiali, e da una componente di storytelling. Qual è il problema? Che oggi la narrazione è spesso maggiore dei fatti, allora il palco crolla. Ma se fatti e narrazione sono equivalenti, e se l’idea ha tutte le caratteristiche di cui ti ho parlato, allora può innescare un’innovazione capace di mettere radici. E quando mette radici diventa abitudine, e dall’abitudine nasce la tradizione. Dietro ad ogni tradizione si nasconde un'innovazione che ha funzionato, una disubbidienza, come direbbe il professor A. F. De Toni.
So che sei un grande appassionato di jazz, un tipo di musica dal quale hai tratto analogie interessanti rispetto al mondo delle PMI. Puoi raccontarmene qualcuna?
Se le multinazionali sono orchestre - sistemi perfetti, dove ogni ruolo e processo è definito nel dettaglio - la piccola e media impresa è sicuramente jazz. Come il musicista jazz, chi lavora nelle PMI deve saper lavorare in gruppo, e questo significa due cose: la prima è che deve conoscere le regole, quindi rispettare tempi, spazi ed equilibri definiti, e questo indipendentemente dagli spartiti; la seconda è che deve tenere in considerazione gli umori, le originalità, i comportamenti e il non detto degli altri. Intuire qual è il momento dell’assolo, della rotazione e delle improvvisazioni è importante. E qui voglio fare una precisazione. La parola improvvisazione spesso è percepita in modo negativo, ma nel jazz non è così. Per saper improvvisare devi conoscere e saper suonare almeno un migliaio di standard. Non è per tutti, richiede disciplina e metodo.
Ma ci sono anche altre analogie. Il jazz, per esempio, ci abitua a rompere gli schemi, a disimparare le abitudini. È un esercizio di creatività. Ci aiuta ad accettare le situazioni di caos, quello che in gergo si chiama VUCA: volatilità, incertezza, complessità e ambiguità. È una bella metafora.
C’è poi il rapporto con l’errore. Se per l’orchestra l’errore è una disgrazia, nel jazz diventa un’opportunità, il punto da cui partire per generare nuovi atteggiamenti ed emozioni. È un po' l'arte del kintsugi giapponese, il piatto rotto che, ricomposto grazie a una lega di oro e argento, diventa più prezioso. Infine il jazz ti insegna che non c’è un solo leader, ma che la guida si alterna, come accade negli stormi degli uccelli e, spesso, negli organigrammi fluidi delle PMI.