Condividere la vetta

Tra solitudini illuminanti e condivisioni profonde, Tamara Lunger ci racconta passioni e valori di un’alpinista professionista.
Dal rapporto con il proprio team a quello con il compagno di cordata, in questa intervista lanciamo uno sguardo nel vissuto professionale e personale di una delle atlete più rilevanti sul panorama internazionale, intraprendendo un viaggio che non riguarda solo la conquista di una nuova vetta, ma anche (e soprattutto) di una nuova consapevolezza interiore.

Partiamo da una domanda semplice, ma importante. L'alpinismo è uno sport individuale o di squadra?
Di sicuro è uno sport di squadra. Anche se in montagna sei da sola, dietro di te ci sono sempre tante persone. Un manager, qualcuno che guardi il meteo, che si occupi della comunicazione... Non si tratta solo di andare in montagna, bisogna prendersi cura di tanti aspetti diversi. Troppi per una sola persona.
Ci sono tanti atleti bravi, ma non tutti riescono a fare della loro passione una professione. Come dice Simone Moro, per farne un lavoro devi saper parlare, rispondere alle interviste, scrivere libri, tenere degli speech e tanto altro. L’aiuto degli altri è fondamentale.
Anche i compagni di spedizione fanno parte della squadra?
Direi di sì, anche perché con loro condividi un’esperienza importante. Ma c’è un altro aspetto oltre a quello umano, ed è molto più pratico. Quando affronti un ottomila, dove le condizioni sono estreme, vuoi per le temperature, la quota, il vento e quant’altro, basta mettere il piede nel posto sbagliato per sprofondare in un crepaccio di duecento metri, e io non ho più voglia di prendermi questo rischio. In questo caso hai bisogno dell'altro non solo per un discorso di amicizia, ma soprattutto perché può fare la differenza tra la vita e la morte.
Quando hai provato il K2 in invernale, con il tuo compagno di cordata non è scattata la scintilla e, alla fine, non te la sei sentita di provare la cima con lui. Quanto è importante che nel gruppo ci sia la giusta chimica?
La chimica è importante, non c’è dubbio. Bisogna essere sulla stessa linea d’onda, altrimenti il rischio è che diventi tutto innaturale, forzato. Quando ero sul K2 assieme ad Alex Gavan mi capitava spesso di prenderlo in giro. Lo stuzzicavo, ma senza malizia. Io sono una persona che scherza molto, ma per lui questi scherzi erano negativi, si sentiva sempre attaccato. Durante i trekking era sempre l'ultimo e spesso arrivava verso sera. Io gli dicevo: dai Alex, speriamo che in montagna vada meglio! Per lui una cosa così era già troppo. Mi accusava di portare una brutta energia all’interno del gruppo e dovevo sempre stare attenta a quello che facevo, quali parole usavo e con quale tono le dicevo. Era difficile, perché quando non puoi essere te stessa diventa tutto più faticoso. Il mio intento non era quello di attaccarlo, volevo solo fargli capire che quello che stavamo per fare non era uno scherzo. Un ottomila di inverno non è come d’estate, è tutto un altro paio di scarpe.
Nel 2020, appena arrivati sul K2, siete rimasti sorpresi per il numero di persone che erano lì per tentare la cima. Come hai vissuto questa convivenza forzata?
Con Alex avevamo pensato a questa evenienza e ci eravamo portati una tenda abbastanza grande, solo per noi. Sapevamo che, se la situazione nella tenda comune si fosse fatta troppo caotica, avremmo avuto la possibilità di scappare. Per me è molto importante avere lo spazio per allenarmi, stare tranquilla e poter scrivere. Avere una tenda per noi mi permetteva di fare tutto questo. Poi però ho scoperto di trovarmi molto bene, se non meglio, con le persone della tenda comune. Lì era divertente, potevo essere quella che sono, ridere e scherzare. Alla fine passavo il mio tempo un po’ qui e un po’ lì.
Quando sei su un ottomila ci sono tanti tempi morti. Come passi le giornate di attesa?
Quando ho iniziato ad approcciarmi agli ottomila venivo dalle gare di sci alpinismo. Volevo essere veloce e fare sempre tanto, non mi fermavo mai. È stato Simone a insegnarmi il segreto di un alpinista d'alta quota. Sono tanti quelli bravi, quelli che potrebbero arrivare in cima, ma non tutti hanno la capacità di aspettare il momento giusto per farlo. In questo sport, saper aspettare è la qualità che fa davvero la differenza. Anche per questo è importante avere un compagno di cordata con cui ti trovi bene. Con Simone, per esempio, ci siamo sempre divertiti tanto. Quand’è così, il tempo lo si passa insieme, oppure allenandosi. Io, per esempio, scrivo sempre molto. Mi piace la riflessione, mi piace stare con me stessa, ma quando sono a casa ci sono distrazioni ovunque. I social, la tv, la radio, la famiglia, gli impegni… Devi quasi lottare per trovare del tempo per te. Quando sei su un ottomila è diverso. Sei disconnessa da tutto e questo a me piace molto. Forse è questa la chiave che mi ha fatto innamorare di questa disciplina: avere tutto questo tempo per riflettere, pensare al futuro e sognare. Quando ero lì diventavo incredibilmente creativa, mi arrivavano mille idee e le scrivevo tutte. Non vedevo l’ora di tornare a casa per poterle realizzare. Quando sono qui, invece, non riesco ad essere così generativa. Sono troppo distratta.
Un’altra grande differenza è che lì vivi davvero con poco, basta quello che riesci a fare entrare dentro due borse. Ovviamente rimangono fuori la cucina e il cibo, ma per il resto è tutto ridotto all’osso. La possibilità di vivere con questa semplicità mi ha sempre lasciato stupita. Mi fa sentire grata della vita, perché ho capito che ci basta poco per essere felici.
Parliamo della vetta. Una volta raggiunta, quanto tempo hai per goderti quel momento?
Di solito sulla cima si passa veramente poco tempo. Non è come in vetta da noi, dove ti siedi, tiri fuori il tuo panino e ti rilassi godendoti il paesaggio. Certo, anche lì ti godi la vista, però stai già pensando alla discesa. Quando sei in cima a un ottomila sei solo a metà strada, hai bisogno ancora di tante ore per tornare al campo, sai che sarai lenta e che le energie a disposizione non sono quelle di quando sei partita. C’è un po’ di preoccupazione.
Questa è la norma, ma nel 2014 ho avuto la fortuna di passare un’ora sulla cima del K2. Aspettavo il mio compagno di cordata, che poi non è arrivato, e alla fine sono scesa perché vedevo che stava iniziando a nevicare. È stata una bella eccezione.
È più bella la vetta o il percorso per arrivarci?
Difficile rispondere, fa tutto parte di un lungo percorso carico di sacrifici e difficoltà. È un mix di tante emozioni diverse. Lo ripeto spesso, quando sei su un ottomila appare tutto più grande. Se vivi un momento difficile, anche un piccolo ostacolo può rivelarsi insormontabile. Se invece vivi un momento di gioia, vorresti gridarlo con tutta la tua voce, anche se è qualcosa di apparentemente semplice. Durante una spedizione le cose hanno un’intensità particolare.
Quando lo fai con passione sono magiche anche le sere prima della partenza. E poi, quando sei riuscita a conquistare la vetta e sei tornata al campo base, sai che lì sei finalmente sana e salva, e quello è il massimo. Quando voli verso casa ripensi un po' a tutto quello che hai vissuto, rivivi tutta la spedizione ed è uno dei momenti più belli. Ti senti quasi immortale. Una cosa così grande e bella può succedere solo sugli ottomila, o almeno per me è così.
Eppure ci sono tanti settemila e seimila altrettanto sfidanti…
È vero, e spesso lo sono anche di più.
Ormai sugli ottomila le persone amano quasi essere in mezzo al casino, perché questo aiuta a darti un po’ di sicurezza. Uno pensa che, anche se starà male, qualcuno lo potrà aiutare. Quando sei da solo, come lo eravamo io e Simone sul Gasherbrum, è tutta un'altra cosa. Lì sei il solo responsabile di ogni passo, ogni decisione, ogni azione. E questo a me piace. Non amo, invece, la massa e le situazioni troppo affollate. In particolar modo quando succede qualcosa per cui la vita conta meno, si lotta, ci sono discussioni, qualcuno ruba… sono cose che mi fanno stare male. La montagna per me è sacra, bisogna avere un po’ di rispetto verso la natura, verso le altre persone, e invece sempre più spesso le spedizioni si riducono a un consumo della cima. Ma non è solo la scalata fisica quello che conta, è soprattutto quella interiore verso se stessi. È questo che mi manca un po’ quando penso agli ottomila. Vedo cosa succede, come stanno cambiando le cose e penso che non tutte combaciano con i miei valori. Chi è cresciuto nelle Dolomiti sa come si va in montagna, e sa come si rispetta la natura. Ora lì sembra che tutto sia una festa e chi paga può avere qualsiasi cosa. Sta diventando una meta perfetta per modelle e influencer, dove gli sherpa fanno tutto e loro non pensano a nulla.